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Le vertigini: il corpo al centro dell'uni-verso

Dagli studi di Josef Breuer, un viaggio alla scoperta delle vertigini: da quelle patologiche a quelle provocate volontariamente per lasciarsi andare. Approfondimento a cura del dott. Aldo Messina.
Foto Mancante
Dott. Aldo Messina 11/07/2016 10:30
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“Dottore mi aiuti, da quando ho sofferto di crisi vertiginose non mi sento più sicuro, sono ansioso, temo mi possano ritornare e credo che questa malattia mi accompagnerà sino alla morte”.


Questa la sensazione che provano le persone affette da vertigine, una patologia che coinvolge sia la nostra componente organica, per lo più l’orecchio interno, che quella psichica. Per comprendere come la scienza sia giunta a identificare questi due aspetti dobbiamo rifarci a Josef Breuer. Questo scienziato è noto a molti neuropsicologi, anche se probabilmente è quasi sconosciuto agli otoneurologi, gli specialisti che dedicano i loro studi al sistema vestibolare e alla percezione uditiva, quando invece dovrebbero riconoscerlo come il loro padre scientifico.


Vissuto tra il 1842 e il 1925 era un medico psichiatra austriaco considerato addirittura un modello per gli studi di Sigmund Freud, essendo stato il precursore delle teorie di quest’ultimo sui fenomeni psicodinamici. Il celebre caso di Anna O. (nella vita Berta Pappenheim), descritto dal più noto Sigmund, fu inizialmente trattato con ipnosi da Breuer. Lo stesso divenne presto amico, oltre che di Freud, anche di Nietzsche (che si servì delle sue cure) e il loro rapporto fu citato da Irvin Yalom nel volume “Le lacrime di Nietzsche”.


Se da un lato intuì i rapporti tra nervo vago e fenomeni respiratori (poi descritto come riflesso di Hering Breuer), Breuer, psichiatra ma anche otoneurologo, è anche stato il primo a descrivere nel 1873 l’importanza del bilanciamento delle informazioni fornite dai liquidi, endolinfa e perilinfa, dei canali semicircolari dell’orecchio interno di destra e di sinistra. La sua teoria, ancora oggi valida, supera quella del fisiologo Friedrich Goltz che nel 1870 aveva descritto il ruolo singolo dei canali semicircolari, non comprendendo l’importanza del bilanciamento a livello del sistema nervoso centrale, prevalentemente a livello del cervelletto (cerebellare), delle informazioni provenienti dall’orecchio interno.


Breuer è stato pertanto il primo oto-neuro-psicologo.


Oggi sappiamo che il gioco e il movimento infantile, espressione del senso dell’equilibrio, sono il presupposto per un corretto sviluppo anche mentale; tanto che nel 1989 una risoluzione dell’O.N.U. ha dichiarato il gioco un diritto di ogni bambino.


Quando i bambini giocano, si confrontano tra loro, stimolando così la crescita e la moltiplicazione delle fibre del loro sistema nervoso centrale; in termini più scientifici la loro neurogenesi e neuroplasticità sia somatica che cognitiva. I bambini giocando gridano, eseguono piroette, corrono e si rincorrono, cercano di capire chi resiste di più girando su se stessi. L’attività ludica, il reciproco “duello” infantile, non si basa quindi sul confronto di abilità cognitive (per esempio ripetere poesie) ma prevalentemente sul mettere a dura prova le rispettive strutture dell’equilibrio che contribuiscono alla maturazione psichica.


Questo fenomeno avviene sin dai primi giorni di vita, quando il neonato inizia la localizzazione sonora destra –sinistra, attivando i fenomeni di spaziocezione. D’altronde la parte più antica del cervelletto, per questa detta archi-cerebello- costituita dai nuclei nervosi del nodulo e flocculo, è funzionalmente rappresentata dal cervelletto vestibolare o vestibolo cerebello, a sua volta connesso ai nuclei vestibolari ai quali giungono le informazioni dei canali semicircolari dell’orecchio interno. Pertanto è questa la parte evoluzionisticamente più antica del cervelletto ed è quella che si sviluppa anche negli animali più semplici, essendo di basilare importanza per la stazione eretta e la deambulazione nonché per gli atti di coordinamento tra queste due funzioni e i movimenti della testa e degli occhi. È facile comprendere che a ogni movimento della testa deve corrispondere un movimento omologo degli occhi e del corpo per consentire rispettivamente il mantenimento della mira sul bersaglio e la postura corretta. All’archicerebello giungono non solo le informazioni dei tre canali semicircolari ma anche quelle delle altre due strutture sempre dell’orecchio interno, l’utricolo (utili a darci la percezione del movimento avanti dietro) e del sacculo (deputato alle informazioni alto basso).


L’aspetto psichico del fenomeno posturale entra in gioco osservando che per l’uomo, che è pur sempre un animale, risulta di vitale importanza non solo il mettersi in piedi ma associare questa funzione ai meccanismi di fuga rispetto a uno stimolo, per lo più uditivo, potenzialmente pericoloso. Alla reazione di fuga si assoceranno inoltre le conseguenti reazioni emozionali, come la paura e le relative ripercussioni sia sul distretto psiconeuroendocrino che vascolare. Per converso un animale affetto da vertigine è un animale che con ogni probabilità, non appena esce dalla tana o da casa, sarà menomato nelle reazioni di fuga e sarà facile preda di un altro animale. Ecco che la natura provvede a far percepire la vertigine come estremamente pericolosa, una sintomatologia che deve generare paura e ansia Non deve pertanto sorprendere se le funzioni otoneurologiche e cerebellari si pongano spesso al confine tra la componente somatica e quella psichica. A ben valutare la vertigine, essa è un’allucinosi, fenomeno psichico, spaziale. Dello stesso avviso la lingua italiana che utilizza il termine emozione mantenendo integra la radice latina “emotus”, scuotere, comprendendo i rapporti tra emozione e movimento e pertanto equilibrio.


L’otoneurologia è la disciplina medica specialistica audiologica che studia la fisiologia e patologia del sistema dell’equilibrio. Per far questo deve valutare la complessità delle informazioni che determinano il senso dell’equilibrio e pertanto non solo di quelle provenienti dall’orecchio interno, ma anche dalla vista e dall’apparato recettoriale muscolo scheletrico. Questa disciplina si candida quale grimaldello per aiutarci a comprendere, in senso lato, il legame tra l’ambito esteriore delle cose, qui rappresentato dalle patologie organiche- che in quanto tali possono essere valutate obiettivamente, e quelle interiori delle emozioni psichiche, esclusivamente esperibili, almeno al momento.


La persona con vertigini (definizione da preferire al termine paziente poiché si vedrà in seguito come la vertigine può essere ricercata volontariamente dal soggetto sano) prova l’illusione del movimento, non percepisce bene il suolo sotto i propri piedi, ha l’impressione che un inesistente vento lo spinga a cadere di lato e avverte un “equilibrio instabile”, gli sembra che “tutto ruoti” o che la testa sia scossa. Ma queste sono esperienze che possono essere psichiche o corporee, esistenziali o somatiche, simboliche o concrete. Nella sua opera Freud ha parlato spesso di vertigini, presentandole come uno dei sintomi principali della nevrosi d’angoscia.


Quindi, fin dalle prime teorizzazioni psicoanalitiche, le vertigini hanno rappresentato uno dei fenomeni clinici più suggestivi del rapporto mente-corpo, le cui alterne vicende sono alla base della salute come della malattia. Pertanto il sintomo vertigine va ricercato in una trilogia di fenomeni al tempo stesso otoneurologici e psicologici. Può trovare origine prioritariamente in una lesione organica dell’orecchio interno o del sistema nervoso centrale. Una seconda causa può essere ricercata in un momento neuropsicologico come sintomo di ansia, depressione, simulazione (non sempre conscia) o francamente neuropsichiatrico, come nella vertigine posturale fobica, nell’agorafobia, acrofobia e così via. Terzo aspetto della vertigine, infine, è che essa può essere ricercata volontariamente dal soggetto sano, da ognuno di noi, talvolta spendendo dei soldi per ottenerla.


È questa la cosiddetta vertigine salutare.


Se i primi due aspetti appaiono, per le premesse fatte, comprensibili, il terzo, che probabilmente incuriosisce, deve essere esplicitato.


Basti pensare a quanti ballano, frequentano il luna park e gli ottovolanti o le montagne russe, a quelli che si assumono sostanze stupefacenti leggere o si ubriacano o…ridono a crepapelle o s’innamorano. Sono tutte condizioni nelle quali l’effetto finale è una vertigine. In questi casi non c’è una patologia da alterato input periferico, né dell’integratore centrale cerebellare né, infine, un errore della mente del soggetto. Sussiste solo la libera volontà di volere deliberatamente provare il senso della vita. L’altalenarsi tra conscio e inconscio, tra istinto e ragione e il lasciarsi andare volutamente. In questi casi, quotando il medico palermitano Francesco Oliviero, si potrebbe parlare di Ben-attia e non di mal-attia, cattiva possibilità di agire.


Se normalmente ogni tanto possiamo scegliere di provocarci le vertigini, quanti soffrono di vertigini croniche, patologiche, vivranno nel terrore di non potere controllare il proprio io, il proprio corpo ed eviteranno tutto ciò che possa determinare in loro la recrudescenza della sintomatologia. In altri termini il vertiginoso patologico cronico è impossibilitato a spaziare oltre i confini dell’io. La vertigine come espressione di una spirale simile a quella di una galassia, nella quale il centro è rappresentato dal nostro corpo. Le vertigini confermano che il nostro corpo è al tempo stesso elemento dell’esterno che entra dentro di noi ma anche della nostra interiorità psichica proiettata verso l’esterno. Le vertigini pongono il corpo al centro dell’uni-verso e si mostrano con una sintomatologia rotatoria da tutti rappresentata graficamente come una spirale, una galassia. La vertigine intesa come “non corpo” e quindi come vuoto, frutto di percezione di perdita interiore o esterna. Un “non corpo” inteso come vuoto che è a sua volta anche realtà pur essendo un vuoto, la qual cosa ha indotto Daniel Quinodoz a portare avanti la teoria dei due estremi psichici dell’angoscia e del piacere e di operare nel campo delle vertigini su base emozionale.


Pertanto diamo ragione a Lorenzo Jovanotti che definisce nel testo di “Mi fido di te” la vertigine, che “non è paura di cadere ma voglia di volare”. Tra soma e psiche.